LA VERA STORIA ROMANZATA DELL’ANTONIANUM BASKET

Nel dicembre 1984 anche Gigi studiava Medicina e ovviamente giocava a Basket, ma cominciava già a manifestare interesse per gli aspetti organizzativi della società sportiva. Suo padre era uno dei fondatori del Basket Quartu, la passione e le idee del dirigente Gigi ce l'aveva nel sangue. Lì al Basket Quartu gli chiesero di provare a metter su qualcosa per i bambini e i ragazzi del quartiere Sant’Antonio, allora periferia abbandonata di Quartu.
L'impresa era ardua ma Gigi era forse la persona più adatta per quella sfida: era giovane, aveva grandi idee e un'intelligenza acuta. E soprattutto aveva una ostinata convinzione: il mondo poteva migliorare, bastava crederci e darsi da fare. A testa bassa andava dritto alla meta e questo a volte faceva di lui un gran rompiscatole!
“Andiamo a vedere un po’ il posto” mi propose in un pomeriggio di Dicembre cercando la mia complicità.
Nella sede di via Macomer, dietro la Chiesa di Sant’Antonio, il nostro primo impatto fu con un portoncino vecchio e arrugginito: “Ma tu sei matto, non ce la faremo mai”, gli dissi, io che non avevo la sua stessa capacità di proiettarmi nel futuro. Vidi subito però nei suoi occhi quel guizzo che mette in moto il suo cervello e capii che nessuno, nemmeno io, sarei riuscita a fermarlo.
“Aiutoooo” pensai “noi dobbiamo studiare, come faremo?!”.
Ricordo ancora il mio smarrimento. Ma Gigi era già volato nel suo mondo, quello dove si pensa in grande, dove non si tiene la contabilità delle energie spese, dove tutto è possibile. Un mondo dove spesso sei solo contro tutti, anche dove nemmeno i compagni e gli amici non ti seguono perché non ti capiscono.
Pochi giorni di propaganda e in quel campetto malandato arrivarono i primi bambini e Iniziò il minibasket. E furono anni duri: nei giorni di allenamento alle 14 e 25 esatte lui passava a prendermi e io dovevo essere pronta, non accettava neanche un minuto di ritardo.
“Questa dev’essere una organizzazione seria, le mamme devono fidarsi, sapere che siamo puntuali e affidabili”, mi diceva.
”MA CHI VE LO FA FARE?" era la domanda ricorrente delle nostre mamme, dei nostri amici e dei nostri conoscenti.
Ma niente smuoveva la sua determinazione.
Alle 14 e 30 eravamo in via Macomer e ogni giorno trovavamo il campo così come ce lo lasciavano i ragazzini del quartiere dopo la bisboccia della sera precedente: un tappeto di cocci di vetro. Perché lanciavano proprio lì le bottiglie di birra? Per dispetto? Per noia? Forse ci mettevano alla prova, volevano vedere se facevamo sul serio.
E noi facevamo maledettamente sul serio!
Spazzavamo con cura il campo, senza lasciare neanche un pezzettino di vetro pericoloso per quelli che allora erano i "nostri bambini” del Minibasket.
A Gigi non pesava pulire i bagni, rimettere tutto a posto, sopportare il gelo di febbraio e le mamme lamentose. Io lavoravo al suo fianco ma non con il suo stesso atteggiamento: ero spesso arrabbiata e brontolavo. Non avevo ancora studiato Psichiatria!
Erano gli anni 80 e Sant’Antonio era un quartiere difficile. Tra un allenamento e l’altro dovevamo stare attenti a contenere i bulletti di turno, ragazzini che provocavano, insultavano, mettevano a segno atti di vero e proprio vandalismo.
Decidemmo che quei ragazzi andavano in qualche modo considerati. Provammo a parlare con loro. Alcuni riuscimmo a iscriverli ai nostri corsi dopo aver notato che, credendo di non essere visti, provavano a tirare a canestro.
Con i più tosti ci giocammo la carta del "colloquio" con i genitori, scoprendo talvolta che erano anch'essi persone problematiche. Gigi fece tutto questo con grande coraggio e devo ammettere che qualche volta ho veramente avuto paura per la sua incolumità.
Padre Arcangelo, il parroco di quegli anni, comprese e apprezzò il nostro intento educativo e nelle sue omelie domenicali cominciò a “sponsorizzarci”.
Evidentemente fu convincente perché i bambini arrivarono al centro dell’ANTONIANUM sempre più numerosi. Vedere i bambini "di strada" che in campo correvano come saette fu la migliore ricompensa per i nostri sacrifici.
Fra i primi iscritti ricordo Alessandro, che era lì prima di noi, Ale S., sempre accompagnato dalla sua mammina, Monica, la bambina più veloce che abbia mai visto, Antonello, con gli occhioni grandi grandi, Davide , con il sorriso gentile ed educato, Mario , timido e rispettoso, Andrea , sempre il primo all'apertura, e tanti altri che ricordo con tenerezza, per aver condiviso con noi l’asfalto pieno di buchi.
Ingaggiammo i primi allenatori, che erano dei nostri amici, e cominciammo a coinvolgere i primi uomini di buona volontà che oggi rappresentano la dirigenza della Società.
Se arrivammo ad essere la società di basket con il più alto numero di iscritti in Sardegna non fu certo per caso. I bambini per noi non erano numeri, di ognuno di loro Gigi ricordava dove abitava e quando era il suo compleanno.
E dopo aver dedicato tempo, passione e impegno per la creazione di solide basi, cominciarono ad arrivare anche i risultati sportivi, tanti, tutti graditi.
Anche il campo di via Macomer cambiò aspetto ed io ero soddisfatta e contenta per i traguardi raggiunti.
Nel frattempo ci eravamo anche laureati e sposati, ma quelli che per me erano dei punti di arrivo per Gigi si rivelarono ben presto essere punti di ri-partenza.
Nel 1993 Gigi cominciò a parlare, seppure vagamente, della necessità di realizzare una struttura adatta alle potenzialità dell'Antonianum.
Le sue parole rimisero in moto il mio sistema d’allarme: lui a pensare ai grandi progetti per la società sportiva ed io a ridimensionare la cosa, lui a pensare in grande ed io a riportarlo alla realtà.
Lui tirava di qua ed io di là... mi pare di aver passato anni a fare questo gioco!
Dopo una lunga gestazione Gigi partorì un’idea che ai più parve una favola, bella e impossibile.
Si trattava di costruire un complesso sportivo chiedendo un prestito regionale da restituire con una rateizzazione di lungo periodo.
Noi, che abitavamo in casa d'affitto, ci saremmo dovuti accollare un debito di due o tre miliardi!
Mariano, Filomena, Marilena e Anna, gli altri dirigenti della società, dissero che era un’impresa bellissima ma realizzabile, eventualmente, dai nostri nipoti.
Io intanto pregavo e speravo che qualche Santo ci tenesse lontano dai guai.
In realtà i guai non tardarono a venire, ma con essi anche le provvidenziali persone di buona volontà!
Il nostro Angelo Custode si presentò con le sembianze dell'Ing. Cenzo Perra. Non dimenticherò mai quella sera nel suo studio, dove io esordii dicendo: “glielo dica lei, ingegnere, che questo progetto è troppo rischioso”.
Perra con il suo sano realismo mi diede ragione: cominciai a sentirmi più rilassata, finalmente avevo trovato il giusto alleato, soprattutto perché Gigi aveva piena fiducia in lui.
Ma non fu proprio così: non avevo messo in conto che anche all’Ingegnere piacevano i progetti ambiziosi. Gigi aveva un'idea ben precisa per lo spazio dove sarebbe sorto l'Antonianum. C'era un'area comunale inutilizzata, 8.000 metri quadrati di terreno, circondata da palazzi. “ma non si potrà dare e mica la daranno a noi”, gli dissi. Ma lui studiava leggi e regolamenti e la sua risposta era sempre “è possibile, bisogna crederci”
Chiaramente incontrammo non poche resistenze nell'amministrazione comunale. E' sempre difficile credere che le persone possano investire energie ed entusiasmo senza ricavarne niente come tornaconto personale. E' difficile quindi sfidare una cultura negativa e paralizzante.
Ma Cenzo e Gigi, con pazienza e competenza, illustrarono il progetto mettendo in luce i benefici che ne avrebbe tratto l'intera città, sottolineando la sua forza sul piano estetico e funzionale.
Per l'Antonianum Cenzo fu una figura determinante per umanità, competenza e buon senso. Convinse anche un’impresa a realizzare l’impianto venendoci incontro dal punto di vista economico.
“Si, si, va bene, però…” “Si certo, si potrebbe fare, però…” “ Si, sarebbe tutto a posto, però…”. Furono sei anni di lotta estenuante contro la burocrazia. Anni fatti di domande, certificati, fogli persi, rifatti e ripersi; impiegati lenti o distratti; insomma sei anni di duro lavoro contro un'ottusa burocrazia comunale, regionale e nazionale. Sembrava non se ne dovesse venire a capo mai.
Ripenso a quel periodo come quello in cui più volte persi la pazienza e la fiducia nelle istituzioni.
Mi sembrava che la fatica di Gigi fosse incompresa, che si girasse in tondo, a vuoto.
I dirigenti, sempre più numerosi, pensavano ormai che la palestra dell’Antonianum fosse come la fabbrica di Sant’Anna.
Ma Gigi fronteggiava lo stress a modo suo, aveva una solidissima motivazione e una spinta particolare che è solo sua. Passava le notti a studiare il modellino in plastica dell’impianto sportivo: “la palestra sta meglio qui, no qui il campo di calcetto non ha una buona esposizione, ecc. ecc.”
Non mollare, anche quando sembra impossibile; non accontentarsi; questo mi hanno insegnato quegli anni.
Finalmente nel 1998 la situazione si sbloccò, Gigi poté firmare il mutuo con la banca e cominciarono i lavori!
I nostri dirigenti storici, ma anche quelli acquisiti successivamente, apparivano increduli ma felici. Tutti ci sentivamo comunque molto coinvolti. Luisa faceva da vedetta dal suo balcone per scoraggiare eventuali ladri intenzionati a saccheggiare il cantiere.
Gigi, Mariano e gli altri dirigenti si recavano spesso in cantiere; se era chiuso guardavano da fuori, entusiasti dei progressi che registravano.
Tra una preoccupazione e l’altra per i soldi che non bastano mai, la casa dell’Antonianum Basket procedeva.
Il 15 Aprile 1999 è una data storica per noi dell’Antonianum, è il giorno in cui inaugurammo il complesso sportivo. Tutto lo staff organizzativo si mise in moto e si diede da fare perchè tutto filasse liscio, e nell’organizzazione siamo una potenza, lo rivendico con orgoglio. Da lì iniziò una storia più grande, fatta di squadre, di successi, di altri bambini, ma soprattutto di una grande partecipazione di persone.
Questo finale sentimentale è per me d’obbligo e scusatemi per questo, ma la storia dell’Antonianum non potrei scriverla prescindendo dalle emozioni, non sarebbe reale. Non mi scuserò invece per l’immodestia , perché sono del parere che noi tutti siamo e siamo stati di buona volontà, mettendoci tutti in gioco per costruire qualcosa di “comunità”
Allora non potevo conoscere il futuro ma sapevo che, come la vita, ci avrebbe riservato ancora sconfitte, pareggi e vittorie,
Ed è una storia che ora siamo in tanti a fare.
Irma